LA SAGA DI FIORAVANTI
Racconti popolari della tradizione calabrese
Queste fiabe mi sono state raccontate in dialetto calabrese da mio nonno, tranne una, che invece era mia nonna a narrarmi solo dopo mie pressanti richieste. Con esse sono cresciuto.
A mio nonno erano state raccontate, quando era ragazzo, da un vecchietto.
Con aggiunte tutte sue, nonno Ciccio le ha recitate per anni: si commuoveva con i personaggi, con loro soffriva e con loro combatteva contro il male. La sua ultima interpretazione risale all’agosto Duemila: mio nonno sarebbe morto nel dicembre dello stesso anno, lasciandomi la sua voce su un nastro magnetico, con le vicende di Fioravanti e Rizieri.
Le storie orali riferiscono le esperienze di coloro che le raccontano. Ne assumono il carattere: una stessa storia può risultare più romantica o più macabra, a seconda degli aspetti che il narratore pone maggiormente in luce. Tuttavia essa mantiene sempre la sua essenza.
Quando ho deciso di mettere questi racconti per iscritto mi sono chiesto se fosse giusto fermare il loro divenire: nessuna storia orale è raccontata due volte allo stesso modo; ma guardandomi intorno ho notato che i nonni che narrano ai nipoti sono una razza in via d’estinzione, anche perché i nipoti disposti ad ascoltarli sono delle rarità, quindi ho scritto.
I libri riescono a sostituire i nonni? Sicuramente no, ma sono in grado di rammentare che è possibile raccontare, appassionarsi alla parola e fare di essa un mezzo di trasporto, attraverso il quale anche la pace e la lealtà possono entrare nel cuore di ogni uomo.
Un racconto popolare trascritto serve per conservare qualcosa che sta per essere perduta. Fin quando la tradizione non è messa a repentaglio nessuno pensa di trascriverla, perché essa vive alimentata dalla memoria di tutti e arricchita dal racconto di molti. Quando questo equilibrio si spezza, per vari motivi che non sto qui ad analizzare, è necessario conservare, affinché in futuro i nostri figli possano attingervi e ricordare.
In tutte le storie qui riportate ho lasciato integra la struttura, l’anima. Tuttavia non mi sono posto limiti: le ho raccontate come se lo facessi oralmente a un mio eventuale e futuro nipote. Ho tradotto in italiano i testi, li ho integrati dove pensavo che fossero deboli o presentassero delle incongruenze cronologiche, spaziali o d’intreccio. Ho raccontato le storie come avrebbe fatto un qualunque interprete orale, allungando le parti che mi piacevano di più, eliminando qualche particolare o aggiungendone di nuovi. Tutti i nomi dei personaggi me li sono inventati, tranne quelli delle storie di Fioravanti e di Zio Francesco. Ho concepito alcuni sfondi narrativi per dare spessore alla storia scritta, in quella orale lo spavento può essere descritto dallo sguardo di chi racconta e non occorre dire altro, mentre nessuno vedrà i miei occhi leggendo queste pagine: era necessario dire di più.
Le storie popolari non sono mai originali nella loro configurazione – basti pensare alla fiaba di Cinerina, è fin troppo evidente la somiglianza con Cenerentola -, sono presenti i buoni e i cattivi, e il bene trionfa sempre. Leggendo queste storie vi ricorderete d’averle già udite, è possibile, anzi è probabile, ma la loro forza sta proprio in questo, nel rievocare ciò che sappiamo già, impedendoci di dimenticarlo.
Non ho seguito nessun criterio filologico nella composizione di questo libro, forse ho proceduto filosoficamente, giacché credo che la conoscenza nasca dal tempo, che non è una categoria contenente, bensì una creazione artistica per dare spazialità alla ragione. Le fiabe non sono un genere letterario minore, nate solo per dilettare, rappresentano uno strumento valido di cultura, perché – come diceva J.R.R. Tolkien – “la fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà”.
Le fiabe devono rispondere ad un criterio razionale che dia loro una struttura che renda credibile l’incredibile. In esse si procede con metafore, personificazioni, mai per convincere, sempre per trasmettere esperienze. Quindi niente di assoluto e incontrovertibile.
Raccontare fiabe è un mestiere difficile, perché comporta la creazione ed il restauro, due attività diverse e a volte contrapposte. Resta solo la parola a schiarire le tenebre dell’ignoranza, finché vivrà il desiderio di raccontare, l’uomo sarà filosofo e artista e creerà le libertà necessarie per espandere sempre più l’universo dei numeri. Quelle cifre capaci di dare armonia al cosmo, poggiato sulle ventuno lettere del nostro alfabeto millenario.
Credo che oggi la sorte dei popoli dipenda dai popoli stessi, dalla loro capacità di ricordare. La cultura della pace si costruisce con la memoria e non con la dimenticanza. La tecnica può stimolare l’oblio, perché blocca la parola, ma se si riesce a fare di ogni fiaba una teoria relativa si giunge alla conclusione che la matematica non si esprime attraverso la tecnica, ma nella lingua e con essa progredisce per dare spazio al nascosto, senza volerne prevaricare il mistero. C’è sempre uno spazio nuovo, già pieno, capace di contrastare il nulla dell’afasia. Tuttavia parlare non vuol dire rumoreggiare, ma aprire spazi al silenzio che giunge come musica che accompagna la parola. Una fiaba è tutto questo: è parola che piega la superstizione e slancia la ragione verso le vette della ricerca, mai sfrenata, ma sempre pronta a tornare indietro per ricominciare da un’altra parte.
In ogni racconto popolare non si trova un contenuto, ma un contenitore, pronto a riempirsi di senso ogni volta che lo si dona, non solo ai bambini, ma anche a quelle anime nuove votate alla pace e all’ascolto della Natura, che incoraggia e trascina verso l’infinito dei segni.
Raccontare la realtà… Ogni fiaba ne rivela un aspetto e ne fa tralucere le meraviglie.
Introduzione:
Quando ho deciso di mettere questi racconti per iscritto mi sono chiesto se fosse giusto fermare il loro divenire: nessuna storia orale è raccontata due volte allo stesso modo; ma guardandomi intorno ho notato che i nonni che narrano ai nipoti sono una razza in via d’estinzione, anche perché i nipoti disposti ad ascoltarli sono delle rarità, quindi ho scritto.
I libri riescono a sostituire i nonni? Sicuramente no, ma sono in grado di rammentare che è possibile raccontare, appassionarsi alla parola e fare di essa un mezzo di trasporto, attraverso il quale anche la pace e la lealtà possono entrare nel cuore di ogni uomo.
Un racconto popolare trascritto serve per conservare qualcosa che sta per essere perduta. Fin quando la tradizione non è messa a repentaglio nessuno pensa di trascriverla, perché essa vive alimentata dalla memoria di tutti e arricchita dal racconto di molti. Quando questo equilibrio si spezza, per vari motivi che non sto qui ad analizzare, è necessario conservare, affinché in futuro i nostri figli possano attingervi e ricordare. (Francesco Idotta)